Il suicidio assistito viene salutato come una conquista di civiltà che porrebbe l’Italia alla pari con i paesi europei già dotati di questa legge. Il nostro paese però non può permettersi di far propria tale affermazione perché quei paesi a cui guarda come modello hanno fatto molto di più per aiutare le persone disabili. Cioè prima di parlare di morte assistita occorre creare le condizioni perché tali persone possano vivere una vita normale, in piena autosufficienza, senza gravare sui familiari e senza essere lasciate da sole. Ho 69 anni e da 47 vivo la condizione di disabile grave per la tetraplegia causatami da un incidente e ho visto troppi disabili gravi lasciarsi morire per via dei disagi di una vita difficile e non adeguatamente supportata da quella stessa società che adesso si dice disposta ad investire in questa nuova possibilità. Ciò potrebbe equivalere a spingere le persone con gravi disabilità a formulare un ragionamento di questo tipo: «se la mia condizione comincia a peggiorare chiederò il suicidio assistito». La società deve invece investire sulle persone disabili, per farne una forza trainante: se infatti migliora la vita dei più deboli, migliora la vita per tutti. Talvolta si ha l’impressione di essere trattati come merce di scambio: le cooperative a cui vengono affidate le case di cura possono diventare una bella risorsa di voti per un politico che vuole affermarsi. Sarà per questo che se vogliamo andare in un ospizio costando più del doppio alla comunità, veniamo ricoverati, senza problemi. Intendiamoci: rispetto la libertà di scegliere la struttura assistita ma voglio anche la possibilità di vivere una vita autonoma.
E quando andiamo a rivendicare i nostri diritti con forza non vorremmo sentirci dire: ora avete anche una nuova possibilità, l’avete presa in considerazione? E’ questo lo spettro che ci deve inquietare: lo scivolamento verso una cultura del suicidio che a noi toglie la forza di lottare per vivere e offre ai responsabili l’alibi dell’inerzia per lasciare le cose come sono. Esiste il progetto “Vita indipendente” dove chiediamo di poter vivere con la stessa libertà di scelta degli altri, poter scegliere il proprio luogo di residenza, dove e con chi vivere, avendo accesso a una serie di servizi e a dei finanziamenti che ci permettono di assumere degli assistenti personali senza essere costretti ad aspettare la mamma o a sconvolgere la vita dei familiari.
La Regione Toscana concede un contributo, per altro largamente insufficiente per i disabili gravi, con cadenza mensile, a una parte di noi mentre la maggioranza si ritrova a dover aspettare la morte di qualcuno per salire la graduatoria di una lista di attesa troppo lunga. Non è il pietismo che ci serve ma un nuovo modo di vedere le cose e una volontà seria di cambiarle. La legge dice di mettere al centro la persona ed invece al primo posto viene messo il soldo e dobbiamo girare per mille uffici, produrre infiniti documenti ed arrabbiarci ancora per richiedere un nuovo ausilio che spesso ci viene negato. Insomma è troppo facile metter su una legge per morire: prima della libertà di morire deve venire la libertà di vivere!
di Nevio Minici
Articolo tratto integralmente da: “L’Araldo Poliziano“, settimanale della Diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza.